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LiberaMi

Terra… solida, fertile, selvaggia come le zolle di questa terre, che trasuda storia di un passato dei più gloriosi al mondo. Quel passato che viene modellato, piegato, cesellato dalle mani di Angelo Ventimiglia nelle sue opere, per non dimenticare e ricordare le nostre vestigia di Magna Grecia. Un passato che ha il sapore di antico, rassicurante, nostalgico. Un porto sicuro dove fare approdare la memoria e trarre linfa vitale per il presente, il futuro. Un passato che rivive in quel mare azzurro intenso, il Mediterraneo, in un volto Greco di donna, in una moneta primitiva; persino i materiali utilizzati richiamano ancestrali ricordi: il legno di una barca, l’oro, il ferro ricoperto di ruggine… tutto ha il sapore di un rimpianto, o di un  rimprovero: abbiamo dimenticato i nostri illustri natali, non traiamo più forza da essi né ce ne sentiamo orgogliosi, languendo nella dimenticanza e nell’inerzia. Quella dimenticanza e quell’inerzia che sfociano, come una superba ferita. In un presente doloroso e  disastroso. Un presente che viene svelato da Angelo senza l’orrore dell’amara verità, egli rappresenta la banalità del male, l’innocenza del violato, con una tale potenza da annichilire lo spettatore impreparato. Un giudice implacabile, capace di recintare il passato e spiegare impietoso un presente decadente, dove la bellezza e l’innocenza vengono sacrificate all’altare del nulla. Ma è in quel passato accarezzato con riverenza, è su quella ara sacrificale macchiata del sangue di innocenti che Ventimiglia innalza agli dei il suo grido di speranza, tracciando il filo rosso di un futuro probabile, labile, fragile ma probabile. Ed è lì che i confini tracciati ritrovano ampio respiro, come la terra che è, sì, solida e concreta, ma si evolve al cambio delle stagioni, in un mutevole ciclo vitale. Le opere, così, ridanno ossigeno allo spettatore, annientato alla speculare immagine del proprio fallimento. Si prova quel conforto inatteso, proprio quando, di fronte al pericolo,  senza scampo, arriva inaspettata la salvezza. È un messaggio di speranza che lenisce la sofferenza, quello che pervade ogni opera di Angelo Ventimiglia, novello Virgilio dantesco, un messaggio universale, che raggiunge il suo acme nell’opera “AbraMo”. Nomen omen! Come il padre dell’umanità tutta, essa è metafora di come la vera via alla sopravvivenza del genere umano sia la tolleranza, la comunione, l’amore e il bene di tutte le genti. Questa è la speranza sussurrata da questo artista, che riesce ad essere realistico al limite della durezza e lasciarsi andare , al contempo, alla dolcezza di un’utopia salvifica. Un amore ruvido e orgoglioso che si trasforma, sotto le sue mani sapienti, in un’arte sofisticata ed adrenalinica. Definisce i contorni netti, i confini di un passato glorioso, accennando un futuro probabile e lasciando poco spazio alla fantasia, spiazzando di fatto, ogni speculazione su ciò che la visione trasmette. 

Anna Macrì

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